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People chat as they sit at a marketplace in the Old Sanaa city

Oggi voglio consigliarvi la lettura di un interessante articolo uscito di recente sul numero 1142 (26 febbraio 2016) della rivista Internazionale.

L’articolo su Internazionale è una traduzione italiana dell’originale pubblicato su The Atlantic dall’autore Ed Yong (potete trovare l’originale qui).

Ve ne riporto la parte iniziale:

Una delle principali abilità umane si manifesta nella conversazione. Non tanto in quello che diciamo, quanto nei silenzi o intervalli tra la fine delle nostre parole e l’inizio di quelle degli altri. Nelle conversazioni si parla a turno e il “diritto” di parola rimbalza avanti e indietro. Questo pingpong verbale ci è così familiare che non ci facciamo caso. In media ogni turno dura circa due secondi e l’intervallo è di appena duecento millisecondi, un tempo a malapena sufficiente per pronunciare una sillaba. E’ un dato che si ritrova, con lievi variazioni, in tutte le culture, anche nelle conversazioni in lingua dei segni.

“Si tratta del tempo minimo di reazione umana”, spiega Stephen Levinson dell’istituto di psicolinguistica Max Planck. E’ quello impiegato dai corridori per reagire allo sparo d’inizio, che è un segnale semplice. Se agli atleti fosse data un’alternativa (correre con il verde e restare fermi con il rosso) ci metterebbero di più a reagire. In una conversazione si possono avere più reazioni possibili e i silenzi tra i turni dovrebbero essere più lunghi. Ma non è così, perché prepariamo la nostra reazione quando l’altra persona sta parlando. Mentre ascoltiamo le sue parole, infatti, formiamo le nostre, in modo da poter interloquire con la maggiore velocità fisicamente possibile. “Se si tiene conto della complessità di quello che succede in quei brevi turni, si capisce quanto un simile comportamento sia unico”, dice Levinson.

Gli esperti di analisi della conversazione cominciarono a notare la rapida successione dei turni negli anni settanta, ma non avevano né l’interesse a quantificare le pause né gli strumenti per farlo. Levinson disponeva di entrambi. Alcuni anni fa la sua équipe ha deciso di videoregistrare chiacchierate informali. “Quando vedevo due persone sedute all’aperto gli chiedevo se potevo riprenderle con la videocamera per uno studio”, racconta la ricercatrice Tanya Stivers.

Mentre lei registrava gli statunitensi, i colleghi facevano lo stesso in giro per il mondo riprendendo conversazioni in italiano, olandese, danese, giapponese, coreano, laotiano, yeli-dnye (Papua Nuova Guinea), akhoe haiom (Namibia) e tzeltal (una lingua maya del Messico). Anche se lo scarto grammaticale e culturale tra queste dieci lingue era enorme, sono state individuate più analogie che differenze. L’intervallo medio è risultato di duecento millisecondi, con un picco di 470 nel caso dei danesi e un minimo di sette tra i giapponesi.

Le differenze quindi ci sono, ma sono trascurabili soprattutto se paragonate agli stereotipi culturali. Ci sono molti aneddoti sulle lunghe pause degli scandinavi e la sovrapposizione dei turni degli ebrei di New York. Stivers e i suoi colleghi, però, non ne hanno trovato conferma nelle loro ricerche. Hanno invece scoperto quello che Levinson definisce il “metabolismo di base della vita sociale”, cioè la tendenza universale a ridurre al minimo il silenzio fra i turni, senza sovrapposizioni (che sono avvenute solo nel 17 per cento dei casi, in genere avevano una durata di appena cento millisecondi ed erano perlopiù colpi a vuoto in cui un parlante prolungava inaspettatamente l’ultima sillaba).

E ancora sulle pause:

La brevità dei silenzi è ancora più strabiliante se si pensa che occorrono almeno seicento millisecondi per recuperare una parola dalla memoria e prepararci a dirla. Il tempo di elaborazione nel caso di una breve frase sale a 1.500 millisecondi. Significa quindi che dobbiamo cominciare a pianificare la reazione nel bel mezzo del turno altrui aggrappandoci a ogni elemento, dagli spunti grammaticali ai cambiamenti di tono. Mentre prevediamo cosa conterrà la parte finale di una frase, costruiamo l’ipotetica replica, ricorrendo in gran parte agli stessi circuiti neuronali.

I pessimisti potrebbero vederci la dimostrazione che passiamo la maggior parte del tempo di “ascolto” a preparare quello che diremo noi. Ma lo studio dimostra invece che perfino chi ha il vizio cronico d’interrompere ascolta davvero. E ovviamente, quando serve possiamo ritoccare la durata dei silenzi. “Non si reagisce sempre in fretta”, spiega Stivers, ora all’università della California di Los Angeles. “Invitare qualcuno al cinema e sentirsi rispondere subito di no non è piacevole. Meglio fare una pausa. E forse aggiungere: ‘Magari un’altra volta?’. Siamo piuttosto bravi a regolarci”.

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Vi segnalo questa interessante conferenza che si terrà settimana prossima, il 3 marzo 2016, presso l’università di Cagliari, sul tema del “sessismo linguistico”.

Per maggiori informazioni potete visitare questo sito.

Il Master di I livello in “Gender equality – strategie per l’equità di genere” del Dipartimento di Pedagogia, Psicologia e Filosofia organizza il 3 marzo la conferenza “Linguaggio di genere e amministrativo: la rappresentazione di donne e uomini nella lingua italiana di oggi” con la partecipazione di Cecilia Robustelli, professoressa associata di Linguistica Italiana all’Università di Modena e Reggio Emilia e componente del gruppo di esperti sul linguaggio di genere presso il Dipartimento per le Pari Opportunità della Presidenza del Consiglio dei Ministri.
L’incontro, presentato da Cristina Cabras e introdotto da Cristina Lavinio, si terrà alle 15 presso l’Aula Specchi  della Facoltà di Studi Umanistici (Sa Duchessa, Via Is Mirrionis 1 a Cagliari) e sarà un’importante occasione per discutere sul sessismo linguistico, sul ruolo giocato dal linguaggio nella costruzione sociale della realtà e sulla promozione del linguaggio di genere.

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Vi segnalo questo interessante intervento di Ray Jackendoff sull’evoluzione del linguaggio.

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03-HeisenbergTra le varie letture di quest’ultimo periodo mi è capitato di aprire il libro di Heisenberg intitolato Fisica e filosofia, nel quale un intero capitolo è dedicato al linguaggio. Scrivo questo post per condividere con voi un paio di passaggi che ho trovato molto interessanti.

Innanzitutto, bisogna dire che Heisenberg parla di linguaggio perché riconosce e si pone il problema di come poter esprimere in modo adeguato ciò che viene scoperto dai fisici contemporanei:

Anche per il fisico la descrizione nel linguaggio comune servirà come criterio per avere una chiara nozione di ciò che si è raggiunto. Entro quali limiti è possibile una tale descrizione? E’ possibile addirittura parlare dell’atomo? Si tratta d’un problema di linguaggio oltre che di fisica.

406px-Heisenberg_10La riflessione sul linguaggio è quindi necessaria anche per il fisico proprio perché il linguaggio è quel medium che permette a ogni essere umano – fisico, filosofo, chimico, psicologo che sia – di esprimere determinati concetti e pensieri; e di conseguenza teorie.

Un passaggio che però mi ha colpito particolarmente è quello in cui Heisenberg si sofferma sul linguaggio scientifico e sulle formulazioni logiche. Infatti, qui l’Autore si dedica a riflessioni molto interessanti per chi come me si occupa di filosofia del linguaggio; riflessioni che andrebbero considerate in particolare da chi difende un approccio non-cognitivista allo studio del linguaggio, ovvero un approccio tradizionale:

l’analisi logica del linguaggio contiene di nuovo il pericolo di una eccessiva semplificazione. Nella logica l’attenzione è tratta verso strutture particolarissime […] mentre tutte le altre strutture del linguaggio vengono trascurate. Queste altre strutture possono sorgere da associazioni tra certi significati delle parole; per esempio, un significato secondario d’una parola che attraversi solo vagamente la mente quando la parola viene udita può portare un contributo essenziale al contenuto di una frase. Il fatto che ogni parola può produrre molteplici movimenti, più o meno coscienti, nella nostra mente, può essere usato per rappresentare, attraverso il linguaggio, alcune parti della realtà molto più chiaramente di quanto non avvenga attraverso l’uso degli schemi logici. (p. 199)

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nietOggi mi permetto di fare il filosofo continentale (ma non troppo).

Vorrei che consideraste la seguente citazione di Nietzsche:

Il diritto signorile di imporre nomi si estende così lontano che ci si potrebbe permettere di concepire l’origine stessa del linguaggio come un’estrinsecazione di potenza da parte di coloro che esercitano il dominio: costoro dicono “questo è questo e questo”, costoro impongono con una parola il suggello definitivo a ogni cosa e a ogni evento e in tal modo, per così dire, se ne appropriano. (Genealogia della morale, I, 2)

Il testo citato è inserito in una più ampia trattazione in cui si discute dell’origine genealogica della morale e, nello specifico, dei concetti di “bene” e “male” – ma non è di questo che intendo occuparmi ora.

Ciò su cui ho interesse a soffermarmi è la tesi secondo cui l’origine del linguaggio potrebbe essere descritta in termini di “appropriazione” di cose del mondo: le parole nascono e vengono utilizzate (inizialmente) al fine di impossessarsi e di fare propri certi oggetti. Imporre una parola come denotante qualcosa permetterebbe, in questo senso, di poter dire che quella cosa “è mia e non tua”, proprio perché quella cosa ha un nome e può essere denotata.

In sé, la tesi per cui l’origine del linguaggio sarebbe descrivibile in tali termini non mi pare che trovi – né che possa trovare – alcuna conferma. Come del resto è difficile trovare conferma per qualsiasi ipotesi avanzata al fine di rendere conto dell’origine del linguaggio naturale.

Tuttavia, trovo comunque interessante il legame che Nietzsche individua tra linguaggio e proprietà, e penso che sia questo il punto di forza della citazione. Non possiamo, infatti, negare la tesi secondo cui per dichiarare “nostra” una certa cosa dobbiamo prima essere in grado di riferirci a essa.

Ma direi di più: la proprietà in generale deve avere come suo presupposto la nostra capacità di categorizzazione e di concettualizzazione, ossia la capacità di selezionare/distinguere all’interno dell’esperienza sensoriale che continuamente facciamo certe entità, riconoscendole come appartenenti a una data categoria. Per poter dire “questa penna è mia”, il bambino deve essersi prima costruito il concetto di penna (o almeno deve possedere delle procedure mentali che gli permettano di riconoscere cos’è una penna, di riferirsi correttamente alle penne e di fare inferenze adeguate sulle penne). Se ne deve quindi in qualche modo essere “appropriato mentalmente”.

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logoVi segnalo questa conferenza che si terrà giovedì prossimo, 9 maggio 2013, presso l’università San Raffaele di Milano, dal titolo Linguaggio e neuroni specchio.

I relatori sono Giacomo Rizzolatti e Luciano Fatiga e devo ammettere che costituiscono due ottimi motivi per non mancare a quest’incontro che dovrà essere senza dubbio molto interessante.

La conferenza si terrà alle 14.30 presso l’aula Sant’Ignazio al Dibit2.

Comunque per altri dettagli vi rimando alla pagina ufficiale dell’università.

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467Vi segnalo e consiglio lo speciale pubblicato sul sito di Rai Filosofia dedicato al Linguaggio. Potrete trovare varie interviste e approfondimenti. Cliccate qui per il link alla pagina.

In particolare ho trovato interessante la puntata di Zettel all’interno di questo speciale, in cui vedo che hanno partecipato alcuni docenti italiani (alcuni sono miei ex-docenti) come Maurizio Ferraris, Achille Varzi e Alberto Voltolini. Potete trovare il video a questa pagina. Vi cito qui di seguito la presentazione… Da non perdere!

Questa puntata di Zettel è dedicata al linguaggio. Maurizio Ferraris affronta la nodosa questione della funzione e delle caratteristiche del linguaggio partendo dal rapporto primigenio delle parole con le cose e dall’iperbolico episodio swiftiano degli accademici di Lagado convinti di poter fare a meno delle parole comunicando con bagagli estesi di oggetti. Il confronto con De Caro svuota la provocatoria soluzione swiftiana attraverso Quine e l’ardua interpretazione del “gavagai” di un nativo di una lingua sconosciuta: un oggetto può sottendere parole differenti, comunicazioni diverse, pragmatiche retoriche molteplici; gavagai potrebbe significare coniglio, guarda un coniglio, cibo, andiamo a caccia etc…

Nella parte finale la questione viene analizzata da un punto di vista inverso partendo dal valore performativo del linguaggio: è possibile fare cose con le parole?

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Spero che mi perdonerete per il titolo un po’ “ruffiano”, ma trovavo simpatica l’idea di usare questa ormai sdoganata dicitura per un post che in realtà tratta di filosofia del linguaggio…

Cerco di arrivare subito al dunque: la questione di cui vorrei parlarvi oggi è la classica distinzione che si è soliti fare in semantica lessicale tra informazioni da dizionario e informazioni da enciclopedia quando si chiede quali informazioni rientrino nel significato di una parola e quali invece ne restino escluse.

Vi è una tradizione di autori che sostengono che il significato di una parola (il significato lessicale) sia costituito esclusivamente da informazioni da dizionario – per intenderci, sono quelle informazioni che troviamo scritte appunto nei dizionari. Ad esempio, secondo questi autori, il significato della parola ‘cane’ sarà dato da una serie di informazioni molto ristrette ed essenziali (il cane è un animale, mammifero, domestico, dal muso allungato, il cui suono tipico è l’abbaiare).

Di certo non farà parte del significato di tale parola il fatto che i cani di norma non sopportano i gatti, che se sono felici scodinzolano, che se invece sono impauriti nascondono la coda tra le zampe posteriori, oppure che se si innervosiscono possono mordermi, al contrario di altri animali che reagiscono graffiandomi.

Tutte queste ultime informazioni non faranno parte del significato della parola ‘cane’, in quanto saranno piuttosto conoscenze “da enciclopedia”, ossia conoscenze accessorie.

Personalmente questa separazione tra dizionario ed enciclopedia non mi ha mai trovato molto d’accordo. Perlomeno non sono mai stato convinto che sia possibile ridurre la conoscenza del significato di una parola a un ristretto gruppo di informazioni. E’ vero che le cosiddette informazioni da dizionario plausibilmente sono quelle condivise dalla maggior parte dei parlanti di una data lingua. Eppure non mi sentirei di sostenere che il significato sia riducibile a queste.

Di recente ho poi letto alcuni articoli molto interessanti scritti da Vyvyan Evans, Professor of Linguistics presso la Bangor University, il quale ricorda come le teorie di semantica lessicale che appartengono alla tradizione di studio cognitivista, tendono invece a collegare il significato delle parole con tutte le informazioni che associamo nella nostra mente al loro referente: “meaning representation is encyclopaedic” scrive Evans in un suo testo.

Ma Evans fa anche un passo in più e nota anche che il significato di una parola non può essere ridotto a qualcosa di stabilito e fissato una volta per tutte. Si dovrebbe, infatti, dire che il significato di una parola è selezionato di volta in volta tra le informazioni di enciclopedia, a seconda del contesto in cui la parola è inserita.

A breve la seconda parte del post…

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Torno a parlarvi di BergamoScienza, il grande evento che si terrà dal 5 al 21 ottobre prossimi.

Bergamo è la città in cui vivo, quindi è con particolare interesse che seguo questo ciclo di incontri, conferenze, attività didattiche. Così… eccovi gli ultimi aggiornamenti.

BergamoScienza è giunto ormai alla sua X edizione. Conta ogni anno migliaia di partecipazioni – anzi dovrei dire centinaia di migliaia, visto che (leggo ora dal sito ufficiale) l’anno scorso sono state contate ben 118.000 presenze.

L’inaugurazione della manifestazione sarà il 5 ottobre. E già si prospetta una serata interessante per gli appassionati di linguaggio:

Protagonisti della prima serata del Festival saranno i pronomi, raccontati al Teatro Sociale in una conferenza-spettacolo, con musica e brani recitati, dal linguista Andrea Moro, il poeta Davide Rondoni e l’attore-scrittore Fabio Volo.

Questa è poi la presentazione delle principali conferenze, con i nomi dei rispettivi invitati al festival:

Saranno affrontate diverse tematiche: medicina, genetica, neuroscienza, fisica, neurobiologia, astrofisica, ingegneria, informatica, archeologia e paleontologia, biologia, chimica, psicologia della scienza, robotica.

Domenica 7 ottobre il premio Nobel per la Medicina 2004 Linda Buck proporrà un approfondimento sui comportamenti del cervello in base alla percezione di odori e feromoni. Sabato 13 sarà la volta di Bruce Beutler, premio Nobel per la Medicina in carica, scopritore dei meccanismi di attivazione del sistema immunitario nel corpo umano; domenica 14 ottobre è in calendario l’incontro con James Dewey Watson, premio Nobel per la Medicina nel 1962, uno tra i primi scienziati ad aver indagato la struttura della molecola di DNA.

Si illustreranno gli orizzonti futuri dell’informatica con Federico Faggin, fisico e inventore del microprocessore. Nell’appuntamento con il neuroscienziato Semir Zeki si definiranno i parametri scientifici della “bellezza”; il biologo Stuart Firestein metterà in scena una lezione-intervista allo scienziato Roger Brent. Il neurobiologo del Department of Zoology della Università di Cambridge Simon Laughlin avanzerà l’ipotesi che il cervello umano sia ormai giunto all’apice della sua evoluzione. Deborah Blum, unica giornalista donna ad aver vinto il premio Pulitzer per la scienza, evidenzierà l’importanza degli esami scientifici nelle indagini poliziesche. La fisica del calcio è il tema dell’incontro che il comitato giovani dell’Associazione BergamoScienza organizza con il fisico Nicola Ludwig: si dimostrerà come le leggi matematiche e geometriche possono essere applicate al mondo del calcio. Mamoru Kawaguchi, uno dei più autorevoli rappresentanti dell’ingegneria moderna, descriverà i suoi innovativi studi sulle strutture spaziali tridimensionali e pneumatiche.

Ampio spazio sarà riservato all’attualità scientifica con gli approfondimenti sul bosone di Higgs e la nascita dell’universo, curati da Guido Tonelli (fisico, collaboratore del CERN di Ginevra). E ancora: si tratterà di neuroeconomia con Alan Sanfey, mentre Ian Wilmut, “papà” della pecora Dolly, parlerà dei segreti della clonazione.

L’ultima conferenza in programma è dedicata al tema della sostenibilità ambientale. I relatori Stefano Mancuso (neurobiologo vegetale), Sergio Mugnai (agronomo), John Brucato e Giovanni Bignami (astrofisici) e Francesco Salamini (biotecnologo) parleranno delle culture artificiali e della possibilità di allestire in futuro dei veri e propri orti lunari.

A settebre uscirà il calendario completo di tutti gli incontri. Scriverò ancora un altro post per informarvi meglio delle date delle conferenze che tratteranno di linguaggio, o che avranno ospiti che potrebbero interessare ai lettori di questo blog.

Per ora vi rimando al sito ufficiale del festival: www.bergamoscienza.it

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Oggetto di sempre maggiore attenzione nelle ricerche sulla cognizione (prima animale e poi umana), i neuroni specchio sembrano poter giocare un ruolo centrale anche nella spiegazione della comprensione del linguaggio naturale.

Prima di soffermarmi su questa relazione, tuttavia, vorrei dedicare questo post alla breve descrizione di che cosa sono e di qual è la funzione di quel gruppo di neuroni cui è stato affibiato il curioso appellativo di “specchio”.

Cominciamo col dire che i neuroni specchio sono stati inizialmente individuati da un gruppo di ricerca italiano, dell’università di Parma, coordinato dal Prof. Giacomo Rizzolatti attorno agli anni ’80-’90. La ricerca mirava a studiare i neuroni che nel cervello del macaco sono dedicati al controllo dei movimenti della mano. Tuttavia, i ricercatori si accorsero casualmente che tali neuroni si attivavano anche quando il macaco vedeva compiere gesti che coinvolgevano movimenti della mano dei ricercatori stessi.

In seguito si sono eseguiti esperimenti volti a dimostrare la presenza di neuroni specchio anche nell’essere umano e oggi ci sono buone ragioni per credere questo.

 

Ma in definitiva, che cosa sono quindi questi neuroni? e qual è la loro funzione?

I neuroni specchio sono innanzitutto delle cellule nervose: dei neuroni appunto. La loro caratteristica principale è quella di attivarsi in due circostanze:

a) quando l’individuo compie una certa azione;

b) quando l’individuo vede compiere la stessa azione da un altro individuo.

 

Ciò pare suggerire che noi comprendiamo le azioni compiute da chi ci sta intorno attivando le stesse cellule neuronali che si attivano quando siamo noi stessi a compiere quell’azione:

In virtù infatti di questa duplice attivazione, i neuroni specchio costituiscono un dispositivo neurofisiologico che mette in relazione le azioni esterne eseguite da altri con il repertorio interno di azioni dell’osservatore. Pertanto questo meccanismo sembrerebbe permettere al soggetto una comprensione dell’azione altrui “dall’interno” o, più precisamente, attraverso la stimolazione del proprio sistema motorio. (Severini, Neuroni specchio: leggi l’intero articolo)

 

In un prossimo post mi soffermerò sulle conseguenze che questa scoperta ha avuto per lo studio della comprensione del linguaggio. Ora, invece, per concludere, vi segnalo questo interessante video-intervista in cui Giacomo Rizzolatti parla dei neuroni specchio e di alcuni aspetti ad essi correlati, come la ricerca sull’autismo.

 

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