Feeds:
Articoli
Commenti

1120-9550Negli ultimi anni Anna Maria Borghi e Felice Cimatti hanno proposto un’estensione alle teorie embodied della comprensione linguistica, al fine di tener conto anche degli aspetti normativi e sociali del linguaggio (cosa che le teorie embodied classiche non fanno: potete trovare altri post su questo argomento qui).

Tale proposta si è concentrata con particolare attenzione sulla spiegazione delle parole astratte, rifiutando l’esistenza di simboli amodali nella nostra mente e difendendo invece una posizione totalmente embodied.

In un mio recente articolo, pubblicato su Sistemi Intelligenti (lo potete consultare integralmente qui), ho cercato di ricostruire l’argomentazione di questi due autori, attraverso un’analisi delle loro pubblicazioni principali. Di questa loro teoria ho cercato di mettere in luce i punti di forza, ma anche i passaggi caratterizzati da criticità. Nello specifico, ho cercato di mostrare come sia a mio parere possibile difendere la presenza e il ruolo delle rappresentazioni modali nei processi di comprensione del linguaggio – ritenendo che sia un errore confondere la distinzione tra rappresentazioni modali e amodali con la distinzione tra parole concrete e astratte.

Vi riporto qui di seguito la parte introduttiva dell’articolo:

Secondo le più recenti teorie della cognizione incarnata (o embodied cognition) la comprensione di un’espressione linguistica richiederebbe la riattivazione delle aree sensomotorie del nostro cervello. È stato, infatti, osservato che quando sentiamo parlare di un oggetto si riattivano le stesse aree cerebrali coinvolte nella percezione di tale oggetto, e che quando sentiamo parlare di un’azione si riattivano le aree attive durante lo svolgimento di tale azione o durante il riconoscimento della medesima azione compiuta da altri individui. Declinando queste osservazioni su un piano cognitivo, è possibile affermare che la comprensione linguistica sia una forma di simulazione degli stati percettivi e motori intercorsi durante l’esperienza diretta di un oggetto o di un’azione. Si parla a tal proposito di teoria simulativa della comprensione linguistica – da qui in poi TSCL (si vedano a riguardo Barsalou 1999, Simmons e Barsalou 2003, Gallese e Lakoff 2005, Prinz 2005, Bergen 2007, Kemmerer 2010, Paternoster 2010).

Tale teoria può risultare molto convincente se viene applicata a categorie di oggetti concreti come lo sono le chitarre, i cani e i tavoli, o ad azioni come camminare, mangiare e correre. Per esempio, si può sostenere che la comprensione della parola ‘chitarra’ comporti la riattivazione delle aree cerebrali normalmente attive quando percepiamo visivamente una chitarra o quando percepiamo uditivamente il suono emesso dalle sue corde o quando, ancora, agiamo su di essa per suonarla; detto altrimenti, comprendiamo la parola ‘chitarra’ grazie al fatto che il nostro cervello simula le esperienze percettive/motorie che abbiamo finora avuto delle chitarre.

La teoria simulativa, tuttavia, può suscitare qualche dubbio nel momento in cui si cerca di estenderla e di applicarla alla comprensione delle cosiddette parole astratte – parole come ‘dogma’, ‘giustizia’, ‘falsità’, ‘onnipotenza’, ‘funzione’, ‘conseguentemente’, ‘emancipare’ – le quali non corrispondono evidentemente a oggetti concreti percepibili. Ebbene, la questione di come descrivere le parole astratte in termini di simulazione di esperienze percettive e/o motorie costituisce a oggi uno dei principali problemi cui le teorie embodied cercano di trovare una risposta (cfr. Barsalou 2010, Borghi e Pecher 2011, Kiefer e Pulvermüller 2012).

Con l’intento di delineare una soluzione a tale problema, alcuni esponenti della TSCL hanno sostenuto che per rendere conto dei contenuti semantici delle parole astratte non sia possibile fare affidamento unicamente a rappresentazioni fondate sul sistema sensomotorio (ossia a rappresentazioni modali), ma sarebbe invece opportuno postulare la presenza anche di rappresentazioni amodali, suggerendo perciò una versione “moderata” della TSCL – versione che ammette dunque un duplice formato, sia modale che amodale, di rappresentazione cognitiva (cfr. per esempio Paternoster 2010, Faschilli 2014, Dove 2011).

La maggior parte dei sostenitori della TSCL, tuttavia, ha optato per una versione puramente embodied della teoria, affermando che il contenuto di una qualsiasi espressione linguistica debba essere descritto esclusivamente in termini di rappresentazioni modali – e impegnandosi al tempo stesso a formulare soluzioni ad hoc per affrontare il problema delle parole astratte (per una rassegna di tali soluzioni si veda Faschilli 2014, 203; ma anche Liuzza, Cimatti, Borghi 2010, 25; oppure Borghi e Cimatti 2009, 2306; Liuzza, Borghi, Cimatti 2012, 49).

La teoria che Anna Maria Borghi e Felice Cimatti hanno avanzato in alcuni loro recenti lavori rientra a pieno titolo in questa ultima soluzione citata. Con la loro proposta, infatti, gli Autori hanno cercato di fornire una risposta puramente “incarnata” al problema delle parole astratte, rifiutando di dover postulare l’esistenza di “simboli amodali” che ne determinino il contenuto semantico. Nello specifico, hanno proposto un’estensione della teoria embodied della comprensione linguistica, secondo la quale la comprensione si fonderebbe sia su processi sensomotori che sull’esperienza sociale – dove però quest’ultima deve essere a sua volta concepita come un’esperienza embodied (ovvero costituita da rappresentazioni mentali modali). Nessuno spazio è stato dunque concesso a rappresentazioni non modali.

 

L’intento del presente articolo è quello di ricostruire, analizzare e discutere l’interessante proposta avanzata da Borghi e Cimatti. Il secondo paragrafo sarà appunto dedicato a esporre la soluzione ideata dagli Autori al problema delle parole astratte. Consapevole che in ogni tentativo di ricostruzione del pensiero altrui ci si espone al rischio di fraintendere le affermazioni originarie, cercherò di limitare tale rischio servendomi di frequenti riferimenti ai loro scritti. Ritengo inoltre che così facendo l’esposizione potrà essere il più possibile completa e analitica.

Il terzo paragrafo sarà invece dedicato alla discussione della teoria. Innanzitutto mi soffermerò sulle conferme sperimentali ricevute e quindi passerò a considerare i suoi principali pregi, sottolineando il contributo che essa può fornire alla ricerca sulla comprensione linguistica. Successivamente mi concentrerò, tuttavia, su quelli che ritengo essere alcuni suoi elementi di criticità: questi mi porteranno a sostenere che vi può essere ancora spazio per una teoria più “moderata” rispetto a quella di Borghi e Cimatti, ossia che si possa ammettere la presenza anche di rappresentazioni amodali, oltre alle rappresentazioni modali, nei processi di comprensione delle parole – e questo a prescindere che si tratti di parole astratte o concrete.

Hilary Putnam

Hilary_Putnam.jpgIeri, 13 marzo 2016, è morto Hilary Putnam.

People chat as they sit at a marketplace in the Old Sanaa city

Oggi voglio consigliarvi la lettura di un interessante articolo uscito di recente sul numero 1142 (26 febbraio 2016) della rivista Internazionale.

L’articolo su Internazionale è una traduzione italiana dell’originale pubblicato su The Atlantic dall’autore Ed Yong (potete trovare l’originale qui).

Ve ne riporto la parte iniziale:

Una delle principali abilità umane si manifesta nella conversazione. Non tanto in quello che diciamo, quanto nei silenzi o intervalli tra la fine delle nostre parole e l’inizio di quelle degli altri. Nelle conversazioni si parla a turno e il “diritto” di parola rimbalza avanti e indietro. Questo pingpong verbale ci è così familiare che non ci facciamo caso. In media ogni turno dura circa due secondi e l’intervallo è di appena duecento millisecondi, un tempo a malapena sufficiente per pronunciare una sillaba. E’ un dato che si ritrova, con lievi variazioni, in tutte le culture, anche nelle conversazioni in lingua dei segni.

“Si tratta del tempo minimo di reazione umana”, spiega Stephen Levinson dell’istituto di psicolinguistica Max Planck. E’ quello impiegato dai corridori per reagire allo sparo d’inizio, che è un segnale semplice. Se agli atleti fosse data un’alternativa (correre con il verde e restare fermi con il rosso) ci metterebbero di più a reagire. In una conversazione si possono avere più reazioni possibili e i silenzi tra i turni dovrebbero essere più lunghi. Ma non è così, perché prepariamo la nostra reazione quando l’altra persona sta parlando. Mentre ascoltiamo le sue parole, infatti, formiamo le nostre, in modo da poter interloquire con la maggiore velocità fisicamente possibile. “Se si tiene conto della complessità di quello che succede in quei brevi turni, si capisce quanto un simile comportamento sia unico”, dice Levinson.

Gli esperti di analisi della conversazione cominciarono a notare la rapida successione dei turni negli anni settanta, ma non avevano né l’interesse a quantificare le pause né gli strumenti per farlo. Levinson disponeva di entrambi. Alcuni anni fa la sua équipe ha deciso di videoregistrare chiacchierate informali. “Quando vedevo due persone sedute all’aperto gli chiedevo se potevo riprenderle con la videocamera per uno studio”, racconta la ricercatrice Tanya Stivers.

Mentre lei registrava gli statunitensi, i colleghi facevano lo stesso in giro per il mondo riprendendo conversazioni in italiano, olandese, danese, giapponese, coreano, laotiano, yeli-dnye (Papua Nuova Guinea), akhoe haiom (Namibia) e tzeltal (una lingua maya del Messico). Anche se lo scarto grammaticale e culturale tra queste dieci lingue era enorme, sono state individuate più analogie che differenze. L’intervallo medio è risultato di duecento millisecondi, con un picco di 470 nel caso dei danesi e un minimo di sette tra i giapponesi.

Le differenze quindi ci sono, ma sono trascurabili soprattutto se paragonate agli stereotipi culturali. Ci sono molti aneddoti sulle lunghe pause degli scandinavi e la sovrapposizione dei turni degli ebrei di New York. Stivers e i suoi colleghi, però, non ne hanno trovato conferma nelle loro ricerche. Hanno invece scoperto quello che Levinson definisce il “metabolismo di base della vita sociale”, cioè la tendenza universale a ridurre al minimo il silenzio fra i turni, senza sovrapposizioni (che sono avvenute solo nel 17 per cento dei casi, in genere avevano una durata di appena cento millisecondi ed erano perlopiù colpi a vuoto in cui un parlante prolungava inaspettatamente l’ultima sillaba).

E ancora sulle pause:

La brevità dei silenzi è ancora più strabiliante se si pensa che occorrono almeno seicento millisecondi per recuperare una parola dalla memoria e prepararci a dirla. Il tempo di elaborazione nel caso di una breve frase sale a 1.500 millisecondi. Significa quindi che dobbiamo cominciare a pianificare la reazione nel bel mezzo del turno altrui aggrappandoci a ogni elemento, dagli spunti grammaticali ai cambiamenti di tono. Mentre prevediamo cosa conterrà la parte finale di una frase, costruiamo l’ipotetica replica, ricorrendo in gran parte agli stessi circuiti neuronali.

I pessimisti potrebbero vederci la dimostrazione che passiamo la maggior parte del tempo di “ascolto” a preparare quello che diremo noi. Ma lo studio dimostra invece che perfino chi ha il vizio cronico d’interrompere ascolta davvero. E ovviamente, quando serve possiamo ritoccare la durata dei silenzi. “Non si reagisce sempre in fretta”, spiega Stivers, ora all’università della California di Los Angeles. “Invitare qualcuno al cinema e sentirsi rispondere subito di no non è piacevole. Meglio fare una pausa. E forse aggiungere: ‘Magari un’altra volta?’. Siamo piuttosto bravi a regolarci”.

Vi segnalo questa interessante conferenza che si terrà settimana prossima, il 3 marzo 2016, presso l’università di Cagliari, sul tema del “sessismo linguistico”.

Per maggiori informazioni potete visitare questo sito.

Il Master di I livello in “Gender equality – strategie per l’equità di genere” del Dipartimento di Pedagogia, Psicologia e Filosofia organizza il 3 marzo la conferenza “Linguaggio di genere e amministrativo: la rappresentazione di donne e uomini nella lingua italiana di oggi” con la partecipazione di Cecilia Robustelli, professoressa associata di Linguistica Italiana all’Università di Modena e Reggio Emilia e componente del gruppo di esperti sul linguaggio di genere presso il Dipartimento per le Pari Opportunità della Presidenza del Consiglio dei Ministri.
L’incontro, presentato da Cristina Cabras e introdotto da Cristina Lavinio, si terrà alle 15 presso l’Aula Specchi  della Facoltà di Studi Umanistici (Sa Duchessa, Via Is Mirrionis 1 a Cagliari) e sarà un’importante occasione per discutere sul sessismo linguistico, sul ruolo giocato dal linguaggio nella costruzione sociale della realtà e sulla promozione del linguaggio di genere.

Vi segnalo questo interessante intervento di Ray Jackendoff sull’evoluzione del linguaggio.

Stavo maccioriguardando dopo tanto tempo questo divertente video di Marcello Macchia, alias Maccio Capatonda, e sono rimasto colpito in particolare della scena che si svolge al quattordicesimo secondo: un passante ferma Maccio e gli domanda l’ora; lui guarda l’orologio, che segna le 10.32, e risponde “Dieci e trenta”. La voce di sottofondo recita: “Quando non puoi fare altro che mentire…”

So che potrà sembrare strano, ma anche nelle occasioni più impensabili si possono trovare spunti di discussione filosofica; e questo è uno di tali casi.

In particolare, la scena comica mi ha fatto ricordare la proposta avanzata nell’ambito degli studi di pragmatica da parte dei cosiddetti “teorici della pertinenza” (come Dan Sperber e Deirdre Wilson), i quali propongono alcune modifiche sostanziali alla importante teoria proposta dal filosofo britannico Paul Grice.

Ma procediamo per ordine.

Innanzitutto, cominciamo con il chiarire che cosa si intende con ‘pragmatica’: la pragmatica è quella disciplina filosofica che si occupa di come il linguaggio è concretamente utilizzato dai suoi parlanti. In questo è distinta dalla sintassi – che studia come le parole si combinano tra loro per formare le frasi – e dalla semantica – che si rivolge prevalentemente al rapporto tra le parole e i loro referenti (questa perlomeno è la classica tripartizione proposta da Charles Morris a metà ‘900: soprattutto sulla distinzione tra semantica e pragmatica non sono molto d’accordo, ma si tratta di un’altra questione che non affronterò qui).

Paul Grice è uno degli autori più noti e più influenti per la pragmatica contemporanea. Secondo Grice, quando un individuo utilizza un enunciato per comunicare qualcosa, non sta semplicemente codificando in suoni un messaggio presente nella sua testa (e che dovrà essere poi decodificato dall’ascoltatore), ma sta facendo qualcosa di più complesso: l’enunciato che viene proferito dal parlante è uno strumento che il parlante usa per manifestare la sua intenzione di comunicare qualcosa; ciò che l’interlocutore dovrà quindi fare sarà riconoscere l’intenzione comunicativa e non semplicemente decodificare un messaggio.

Grice descrive pertanto la comunicazione come una forma di cooperazione tra interlocutori, tanto che ipotizza la presenza di quattro massime – di Quantità, di Qualità, di Relazione e di Modo – le quali intervengono costantemente nei nostri scambi comunicativi, ma che vanno intese non come regole che tutti noi dovremmo seguire quando parliamo, bensì come aspettative che spontaneamente abbiamo quando interagiamo verbalmente con qualcuno. Insomma le quattro massime di Grice non hanno valore normativo, ma soltanto descrittivo.

La massima di Qualità specifica, per esempio, quanto segue: “Cerca di dare un contributo che sia vero” (e nello specifico: “Non dire ciò che credi essere falso”).

Torniamo allora al nostro video iniziale. Quando Maccio risponde alla domanda “che ore sono?” dicendo “Dieci e trenta”, mentre l’orologio segna le 10.32, sembrerebbe che abbia violato la massima di Qualità e che quindi non si sia comportato come un “buon interlocutore”. Questo però non è quello che ci verrebbe da pensare spontaneamente: se qualcuno risponde come ha fatto Maccio, difficilmente diremmo che ha risposto in modo comunicativamente scorretto. Non a caso, infatti, la voce di fondo che recita “Quando non puoi fare altro che mentire” ci fa ridere: Maccio ha detto il falso a voler essere rigorosi, ma quanti di noi vorrebbero sostenere che ha mentito? Al limite ha “arrotondato” e reso meno precisa, ma più immediata, un’informazione.

Ecco che per spiegare questo punto ci viene in aiuto la Teoria della Pertinenza (Relevance Theory). Secondo gli autori che difendono questa posizione, la comunicazione consiste nel modificare stati mentali altrui (dicendo una frase, io intendo produrre nel mio destinatario un certo effetto: modifico i suoi stati mentali). In tali processi di comunicazione, il parlante utilizza diversi stimoli – verbali o non – che servono a produrre quindi effetti nella mente del destinatario; e gli stimoli che producono effetti positivi sono detti “pertinenti”.

In tutto ciò vi deve essere un certo equilibrio tra costi e benefici: quando il destinatario elabora uno stimolo deve impiegare energie mentali (costi), che possono però essere giustificate dai benefici che ottiene (effetto cognitivo, modifica, apprendimento di qualcosa di nuovo).

In conclusione, la risposta approssimata “sono le 10.30”, quando in realtà sarebbero le 10.32, è giustificata dai teorici della pertinenza in termini di costi minori a parità di beneficio: in quel dato contesto (un passante che ci ferma in mezzo alla strada), al destinatario non cambia sapere con precisione se sono le 10.30, le 10.31 o le 10.32; tuttavia, è elaborabile più facilmente l’informazione “tonda” 10.30. Questo ci porta ad approssimare nella risposta.

(E badate che invece non approssimeremmo in altri contesti: se fossimo a una gara ciclistica e ci chiedessero a che ora è arrivato il ciclista Taldeitali, risponderemmo con precisione “10.32”. Questo perché in tale situazione il beneficio ottenuto giustifica lo sforzo di elaborazione maggiore, anzi lo richiede.)

Dante e Chomsky

ChomskydanteOpera naturale è ch’uom favella;/
ma così o così, natura lascia/
poi fare a voi secondo che v’abbella.

(Paradiso, canto XXVI)

grounded cognitionNelle scienze cognitive si sente oggi parlare sempre più spesso di cognizione incarnata (“embodied cognition” in inglese) e di grounded cognition. In questo post cercherò di chiarire brevemente la differenza tra questi due termini che di frequente sono utilizzati in modo intercambiabile, ma che in realtà si riferiscono ad aspetti ben differenti della nostra cognizione. Per fare questo mi servirò di un capitolo scritto da L.W. Barsalou sulla Situated conceptualization, che comparirà nel volume Foundations of embodied cognition (trovate il link al pdf qui sotto), nel quale l’Autore illustra tale differenza.

Cominciamo da un punto di vista storico. A partire dalla svolta cognitiva, le teorie della cognizione umana sono state dominate dal cosiddetto “modello a sandwich” (Hurley, 2001). Secondo questo modello, la cognizione sarebbe un insieme di processi collocati a metà tra la percezione e l’azione: percepisco un cucchiaio sul tavolo; l’informazione percettiva è trasmessa alla mia cognizione e così si attiva il concetto CUCCHIAIO, che è costituito da rappresentazioni differenti da quelle che sono state attivate durante la percezione; l’informazione cognitiva comunica al mio sistema motorio come interagire con l’oggetto percepito e quindi si traduce in un compito motorio.

Come nota Barsalou, i processi cognitivi così concepiti sono modulari: fanno parte di un modulo mentale separato dai sistemi percettivo e motorio e deve quindi essere studiato indipendentemente da questi.

Al contrario, la prospettiva della grounded cognition rifiuta questo “modello a sandwich”: per comprendere effettivamente il funzionamento della cognizione umana occorre tenere in considerazione – e includere nella nostra teoria – anche gli altri domini, superando così il vecchio modello modulare. In particolare, quattro sono i domini che devono essere inclusi:

a) I sistemi sensomotori: l’idea è che la cognizione umana si poggi sulle modalità costitutive della percezione, dell’azione e della propriocezione. Ciò vuol dire che, secondo questa prospettiva, i concetti sono costituiti da rappresentazioni modali (ossia codificate nelle specifiche modalità percettive o motorie).

b) Il corpo: la cognizione può spesso influenzare/essere influenzata da stati corporei o azioni fisiche (quando percepiamo degli oggetti, i nostri sistemi motori anticipano le azioni associate alle affordances dell’oggetto; o, ancora, vi sono stati corporei che influenzano stati cognitivi).

c) L’ambiente fisico: la cognizione dipende dall’ambiente fisico in cui siamo collocati e in cui sono collocati gli enti con cui interagiamo.

d) L’ambiente sociale: la cognizione dipende anche dall’ambiente sociale, in quanto nei processi cognitivi entrano in gioco le nostre rappresentazioni degli altri, delle loro menti e delle loro intenzioni.

 

Con le parole di Barsalou:

Thus, from the grounded perspective, cognition doesn’t simply reside in a set of cognitive mechanisms. Instead, cognition emerges from these mechanisms as they interact with sensory-motor systems, the body, the physical environment, and the social environment. Rather than being a module in the brain, cognition is an emergent set of phenomena that depend critically on all these domains, being distributed across them.
La prospettiva della embodied cognition risulta pertanto essere solo una componente (una parte) della grounded cognition, in quanto si concentra solo su uno dei quattro domini legati alla cognizione: quello corporeo. L’idea centrale della embodied cognition è che la cognizione umana dipenda e sia strettamente legata agli stati del nostro corpo. Tale prospettiva, tuttavia, trascura altri elementi che per la grounded cognition risultano essere altrettanto fondamentali: ossia, i sistemi sensomotori e l’ambiente fisico e sociale in cui siamo inseriti come individui dotati di una mente. L’embodied cognition risulta in conclusione essere “relatively narrow”, mentre la grounded cognition “acknowledges all the domains in which cognition is grounded and from which it emerges”.

 


Barsalou, L.W. (in press). Situated conceptualization: Theory and application. In Y. Coello & M. H. Fischer (Eds.), Foundations of embodied cognition. East Sussex, UK: Psychology Press.

Questa volta mi auto-recensisco.

Ebbene sì, è finalmente uscito il mio libro, dopo mesi e mesi – ma cosa dico? …anni! – di lavoro, revisione e risistemazione.

Il titolo è “Come comprendiamo le parole. Introduzione alla semantica lessicale” ed è edito da Mondadori Education.

Il libro – che è il frutto dell’elaborazione della mia tesi di dottorato in filosofia del linguaggio discussa all’Università di Torino nel 2011 – vuole essere un’introduzione alla semantica lessicale, ovvero a quella branca dello studio del significato che si concentra nello specifico sulle parole.

Per provare a trasmettere meglio qual è la questione centrale, provate a riflettere su ciò: voi state ora leggendo questo testo e non avete problemi a capire che cosa le parole ‘leggendo’, ‘questo’, ‘testo’ ecc. significano. Ciascuna di esse richiama alla vostra mente qualcosa, attivando dei contenuti. Ebbene, in che modo avviene ciò? e quali sono i contenuti che si attivano? e quali sono le rappresentazioni presenti nella nostra mente che ci permettono di capire le parole? Insomma: come comprendiamo le parole?

La mia ipotesi di risposta a questa domanda è articolata nelle 244 pagine del libro, che a sua volta è suddiviso in 5 capitoli.

Il primo capitolo è quello forse più filosofico e cerca di ricostruire storicamente l’evoluzione della semantica modellistica, sino a porne in luce alcune sue significative problematiche che riguardano proprio l’ambito della semantica lessicale. In questo capitolo difendo allora la tesi secondo cui è da preferire un approccio cognitivo allo studio della semantica (lessicale e non).

Il secondo capitolo amplia invece l’orizzonte, considerando teorie e dati che vengono, oltre che dalla filosofia, anche dalla linguistica, dalla psicolinguistica e dalla psicologia. In questa sezione ho cercato di chiarire che cosa siano i concetti e ho fatto ciò presentando la discussione tra chi sostiene che i concetti siano delle rappresentazioni mentali atomiche (ad es. Fodor) e chi sostiene invece che siano strutture di rappresentazioni. Propendendo per questa seconda soluzione, ho cercato quindi di formulare risposte alle critiche mosse dal fronte atomista, per difendere l’idea che i concetti sono composti, ovvero che sono strutture di rappresentazioni mentali.

Il terzo capitolo continua a occuparsi dei concetti come strutture complesse, ma lo fa soffermandosi sul lavoro di un autore che mi ha sempre molto affascinato: il linguista americano Ray Jackendoff. Jackendoff, tra le altre cose, difende la tesi secondo cui i concetti sono costituiti sia da rappresentazioni astratte/linguistiche sia da rappresentazioni percettive/motorie (per fare un esempio: il concetto CAVALLO sarà costituito da una serie di informazioni, come l’informazione che il cavallo è un animale, che è un mammifero ecc., le quali potranno essere rappresentate nella nostra mente con simboli pseudo-linguistici; ma sarà costituito anche da informazioni sull’aspetto fisico dei cavalli: informazioni che possono invece essere immagazzinate mentalmente per mezzo di rappresentazioni percettive).

Tale tesi per cui i concetti sono strutture mentali costituite da due tipi di rappresentazioni – una “proposizionale” e una percettivo/motoria – rispecchia i termini di un dibattito molto attuale e discusso in scienza cognitiva e, in particolare, nell’ambito della embodied cognition. Del dibattito emerso in questo ambito mi sono quindi occupato nel quarto capitolo, presentando e discutendo i dati, le ricerche e gli studi condotti negli ultimi tre decenni da neuroscienziati, linguisti, psicologi e filosofi.

La mia conclusione è quindi una teoria duale dei concetti, secondo la quale i concetti sono appunto strutture costituite da due tipi di rappresentazioni mentali – un tipo codificato in formato amodale e un tipo codificato in formato modale (percettivo e motorio) – i quali servono tra le altre cose da strutture di base per i processi di significazione lessicale.

Detto ciò, faccio fatica a pensare di potervi aver dato un quadro esaustivo del libro con queste poche righe, ma spero che qualcuno sarà invogliato a leggerlo. Nel caso lo leggeste spero possiate comunicarmi i vostri commenti (anche le critiche sono ben accette! Infatti, la ricerca deve essere sempre un continuo superamento di se stessa, sennò rimane puro dogmatismo e non serve più a nulla!!!)


Se volete acquistare il libro lo trovate qui:

Faschilli C., Come comprendiamo le parole, Mondadori Education, 2014.

 

03-HeisenbergTra le varie letture di quest’ultimo periodo mi è capitato di aprire il libro di Heisenberg intitolato Fisica e filosofia, nel quale un intero capitolo è dedicato al linguaggio. Scrivo questo post per condividere con voi un paio di passaggi che ho trovato molto interessanti.

Innanzitutto, bisogna dire che Heisenberg parla di linguaggio perché riconosce e si pone il problema di come poter esprimere in modo adeguato ciò che viene scoperto dai fisici contemporanei:

Anche per il fisico la descrizione nel linguaggio comune servirà come criterio per avere una chiara nozione di ciò che si è raggiunto. Entro quali limiti è possibile una tale descrizione? E’ possibile addirittura parlare dell’atomo? Si tratta d’un problema di linguaggio oltre che di fisica.

406px-Heisenberg_10La riflessione sul linguaggio è quindi necessaria anche per il fisico proprio perché il linguaggio è quel medium che permette a ogni essere umano – fisico, filosofo, chimico, psicologo che sia – di esprimere determinati concetti e pensieri; e di conseguenza teorie.

Un passaggio che però mi ha colpito particolarmente è quello in cui Heisenberg si sofferma sul linguaggio scientifico e sulle formulazioni logiche. Infatti, qui l’Autore si dedica a riflessioni molto interessanti per chi come me si occupa di filosofia del linguaggio; riflessioni che andrebbero considerate in particolare da chi difende un approccio non-cognitivista allo studio del linguaggio, ovvero un approccio tradizionale:

l’analisi logica del linguaggio contiene di nuovo il pericolo di una eccessiva semplificazione. Nella logica l’attenzione è tratta verso strutture particolarissime […] mentre tutte le altre strutture del linguaggio vengono trascurate. Queste altre strutture possono sorgere da associazioni tra certi significati delle parole; per esempio, un significato secondario d’una parola che attraversi solo vagamente la mente quando la parola viene udita può portare un contributo essenziale al contenuto di una frase. Il fatto che ogni parola può produrre molteplici movimenti, più o meno coscienti, nella nostra mente, può essere usato per rappresentare, attraverso il linguaggio, alcune parti della realtà molto più chiaramente di quanto non avvenga attraverso l’uso degli schemi logici. (p. 199)